Asia Centrale, riserva di combattenti ISIS

Il coinvolgimento di kamikaze Uzbeki e Kirghisi negli attentati di Stoccolma e di San Pietroburgo fa riflettere sulla sempre più grande influenza che il sedicente Stato islamico conquista in Asia Centrale, nonostante il severissimo controllo operato sul territorio dagli Stati coinvolti.

Istanbul, San Pietroburgo, Stoccolma: in meno di quattro mesi, queste città sono state colpite da attacchi terroristici perpetrati da cittadini Uzbeki e Kirghisi, affiliati dell’Isis, o sospettati di simpatizzare per l’organizzazione terroristica. Fatti che ci devono far tenere alta la guardia sulla progressiva crescita dell’islamismo radicale in Asia Centrale, con tutte le sue conseguenze. Secondo il think-thank International Crisis Group (ICG), i numero di cittadini provenienti dall’Asia Centrale, soprattutto originari del Tagikistan, del Kirghizistan, del Kazakistan, del Turkmenistan e dell’Uzbekistan ad aver raggiunto le fila dell’Isis in Iraq e in Siria si aggirerebbe tra le 2000 e 4000 unità. Secondo l’ICG, il contingente più importante arriverebbe dall’Uzbekistan, seguito dal Tagikistan, che ritiene siano almeno mille i cittadini del suo Paese ad avere raggiunto l’Isis. Il Kirghizistan stima che per quanto lo riguarda, il numero di suoi cittadini assoldati dal sedicente Stato Islamico siano 600. Ma per Clément Therme, ricercatore per il programma Medio Oriente dell’Institut d’études strategiques (IISS), queste cifre sono sotto stimate e non riflettono quanto esteso sia il fenomeno dell’arruolamento jihadista in Asia Centrale non tenendo conto della fedeltà giurata all’Isis da parte di molti gruppi islamisti locali. “Il Movimento islamico Uzbeko (MIO), nato nella vallata di Ferghana alla fine degli anni ’90, si è rifugiato a Kunduz, in Afghanistan, dove ha raggiunto i Talibani dopo aver subito la pesante repressione dell’ex Presidente  Islam Karimov. E’ l’annuncio pubblico della morte del mollah Omar nel Luglio del 2015 che ha senza dubbio portato Usman Ghazi, un membro di alto livello del MIO, a giurare fedeltà all’Isis il 6 Agosto del 2015”, spiega lo storico in un’intervista rilasciata a France24. E accende i riflettori sul ruolo del Pakistan in questo fenomeno. “Le zone tribali pakistane formano anch’esse dei focolai di radicalismo per i cittadini dell’Asia Centrale. Sono vere e proprie università dello jihadismo”, puntualizza Therme.

Sono numerosi anche i migranti provenienti dall’Asia Centrale ad essere reclutati all’estero, come a Mosca, dove emigrano per trovare lavoro. Si ritrovano spesso a vivere di stenti,diventando così facili prede per i reclutatori dell’Isis. La presenza in Russi di procacciatori estremisti, soprattutto legati all’organizzazione terroristica sembra essere provata dall’Intelligence tagika: “più o meno il 40% dei Tagiki che sono rientrati dalla Siria, o diretti in quel Paese, hanno dichiarato che erano stati arruolati a Mosca da uno stesso reclutatore, identificato poi dai servizi segreti”, afferma il ricercatore francese. Akbarjon Djalilov, il terrorista che si è fatto esplodere nella metropolitana di San Pietroburgo lo scorso 3 Aprile, di nazionalità russa, era nato del Sud del Kirghizistan. Secondo alcuni suoi familiari, a partire dal 2014, il giovane aveva cominciato ad “interessarsi all’Islam, frequentare la moschea, pregare e portare la barba”, per poi recarsi in Turchia nel 2015, cosa che fa nascere il lecito dubbio su un eventuale passaggio per la Siria. Anche se l’attentato non è stato rivendicato (ancora), gli investigatori russi hanno fatto sapere che stanno esaminando tutte le possibili tracce che colleghino Djialilov all’Isis.

Senza dubbio la disperazione e la mancanza di prospettive per i giovani di questi Paesi contribuisce pesantemente a fornire nuova linfa allo jihadismo. I cinque Paesi dell’Asia centrale presi in considerazione  sono tutti repubbliche laiche a maggioranza musulmana. Tutte, tranne il Kirghizistan scosso da due rivoluzioni avvenute negli ultimi dieci anni, hanno alla loro guida capi di Stato autoritari la cui priorità non sono propriamente i Diritti Umani. Al contrario, per far fronte alla minaccia che rappresenta la crescita dell’Isis, hanno rafforzato la loro autocrazia. Si nota soprattutto per le misure prese nei confronti dei musulmani, come in Tagikistan dove l’unico partito islamista del Paese, il Partito per il Rinascimento islamico, peraltro moderato, è stato messo al bando nel 2015. Non c’è alcuna istituzione legale nell’ambito della quale i musulmani possano esprimersi. Nel Gennaio del 2016, la polizia tagika ha tagliato la barba a 13.000 uomini, oggi vietata agli uomini di meno di 45 anni. Il Parlamento ha anche approvato una legge che vieta “nomi arabi con connotazioni straniere”. In Uzbekistan, dove una legge vieta dal 1998 di indossare abiti religiosi negli spazi pubblici, sempre più donne sono obbligate dalle autorità di togliere il velo.

Misure che hanno ovviamente esacerbato l’odio degli islamici radicali. In un video di propaganda diffuso nel 2015 dopo il suo giuramento di fedeltà  all’Isis, Goulmouroud Khalimov, ex capo delle forze speciali di polizia del Tagikistan, incita le forze armate del suo Paese a raggiungere l’Isis, invitandole a protestare contro un Governo che vieta il velo e la preghiera nelle strade. Si appella anche ai tagiki che lavorano in Russia, chiedendo loro di smettere di agire da “schiavi”. E va oltre, promette di portare lo jihad in Russia. Tante piccole realtà che non possono non essere tenute a mente.

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