Wikileaks, Obama grazia Manning gola profonda

E’ l’ultimo atto ufficiale del presidente uscente degli Stati Uniti d’America. Barack Obama ha deciso, a ridosso dell’avvicendamento col neo inquilino della Casa Bianca Donald Trump, di concedere la grazia all’ex analista d’intelligence dell’esercito americano che divenne la prima fonte di Julian Assange e WikiLeaks, organizzazione no-profit che pubblica e divulga informazioni d’interesse pubblico, tenute segrete dai governi.

Il ventinovenne Bradley Manning, condannato a 35 anni di carcere militare per aver trasmesso documenti riservati nel 2010, compromettendo la sicurezza del suo Paese, manifestò, il giorno dopo la sentenza di condanna, la volontà di cambiare sesso. Oggi, infatti, Manning si fa chiamare Chelsea. Dopo aver tentato due volte il suicidio, durante i sette anni di detenzione già scontati, e chiesto la commutazione della pena, non immaginava certo di vedere accolta la propria accorata istanza pochi giorni prima dell’insediamento di Trump, la cui linea di pensiero sui transgender in ambito militare, forse, non avrebbe fatto ben sperare.

Da analista in Iraq, Manning ha avuto accesso a una quantità enorme di file che, una volta trasferita a WikiLeaks, ha fatto venire a galla tutte le chiazze scure dell’attività militare, politica e diplomatica statunitense negli scacchieri più delicati della terra. Dai dossier e cablogrammi copiati e consegnati ad Assange, sono emerse prove sulle responsabilità americane circa gli abusi contro i prigionieri di Guantanamo, detenuti senza processo, e le uccisioni di civili nelle guerre in Iraq e Afghanistan; tra il materiale trafugato, ricordiamo anche un video, che documenta l’attacco eseguito da un elicottero Usa, in cui rimasero colpiti a morte due giornalisti della Reuters.

La situazione generatasi dalle attività di Manning creò grave imbarazzo all’amministrazione Obama e al segretario di Stato dell’epoca, Hillary Clinton. Da quel momento in poi, si scatenò la caccia ad Assange, nel tentativo di bloccare l’attività della piattaforma online, tramite cui riceve i cosiddetti leaks. Assange ha sempre protetto il rapporto con le proprie fonti assicurando loro la garanzia d’anonimato e, in risposta alla dura reazione americana, ha – in passato – amplificato l’eco mediatica delle notizie, avvalendosi anche di provvisorie collaborazioni con affermate testate giornalistiche. Attualmente, fra le critiche più assidue rivoltegli, figurano l’accusa di pubblicare documenti non sottoposti a filtro e controllo editoriale rigorosi e di aver messo a disposizione WikiLeaks come cassetta postale ai presunti hackeraggi perpetrati dai russi, con l’obiettivo di influenzare il duello elettorale per la presidenza tra Donald Trump e Hillary Clinton.

Da tempo, Assange e Edward Snowden, l’altro grande nemico di Washington, ex agente pentito della NSA (National Security Agency), rifugiatosi in Russia dopo aver dato fuoco alle polveri provocando lo scandalo del Datagate, inoltravano appelli affinché la Casa Bianca intercedesse a favore di Manning. Assange si era pure detto pronto a farsi estradare negli Usa, in caso di concessione della grazia alla sua gola profonda. Il fondatore di WikiLeaks ha, dunque, accolto con soddisfazione la comunicazione sulla prossima liberazione dell’ex analista, annunciata alla stampa dal portavoce del presidente Obama, Josh Earnest, senza tuttavia esprimere altre considerazioni riguardo alla promessa di consegnarsi alle autorità del Paese. Pare, infatti, che Assange, oggi domiciliato presso l’ambasciata ecuadoregna di Londra, non abbia intenzione di prestare fede all’impegno, poiché non ancora chiarito dalle autorità americane il suo status giuridico nei confronti del dipartimento di giustizia e perché, con la concessione della riduzione di pena, vi sarebbe stato solo un parziale accoglimento della richiesta di grazia e scarcerazione immediata di Manning.

D’altro canto, resta il fatto che l’ex analista uscirà di prigione il 17 maggio prossimo. Atto, da parte di Obama, umanitario o politico? Ai lettori, l’ardua sentenza.

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