Šešelj rientra in Serbia

Incastonata alla confluenza dei fiumi Sava e Danubio, Zemun – le cui radici affondano al IX secolo – non è solamente la municipalità più importante della città di Belgrado. È anche il luogo dove, il 6 novembre scorso, si son radunate centinaia di persone armate di torce, fumogeni, tricolori serbi e vessilli su cui immancabilmente troneggiava uno slogan: Sloboda Šešelju (libertà per Šešelj).

La folla riunitasi a Zemun non celebrava certo Vojislav Šešelj in qualità di ex sindaco. Inneggiava invero all’uomo politico, a quel prof. Šešelj che nel 1991 fondò il Srpska Radikalna Stranka (Partito Radicale Serbo, SRS), caratterizzandolo con un impianto ideologico spiccatamente nazionalista imperniato sulla difesa della “Grande Serbia” (che andasse ad abbracciare Kosovo, Voivodina, Montenegro,  Republika Srpska in Bosnia e Krajina in Croazia) e che dal febbraio 2003 si è volontariamente consegnato al Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY) rimanendovi custodito per l’appunto sino alla settimana scorsa, quando è stato temporaneamente rilasciato per l’aggravarsi delle sue condizioni fisiche.

Paradossalmente, a dispetto dei due lustri di permanenza a L’Aia, Šešelj non è stato ancora giudicato colpevole di nessun crimine. Fino al novembre 2007, il suo processo non era nemmeno stato avviato, risolvendosi poi in una lunga teoria di custodie cautelari apparentemente sine die.

Non è questa l’unica circostanza illogica nella cattività di questo “innocente” (come altrimenti definirlo?). La traballante impalcatura teorica del processo si evidenzia anche nella formulazione dei capi d’accusa, che lo vedono imputato per aver committed “crimini contro l’umanità” financo a “violazioni delle leggi e dei costumi di guerra”. Tuttavia, come riporta l’atto, “il procuratore – usando la parola commesso – non intende prospettare che l’accusato abbia commesso fisicamente i crimini imputati a suo carico”. Allo stesso modo, usando la parola istigato, il procuratore si riferisce ai “discorsi, comunicati, atti e/o omissioni [che] abbiano contribuito alla scelta di commettere il reato da parte degli esecutori [materiali]”. Al tempo della Santa Inquisizione, si son lette imputazioni maggiormente sostanziate e corroborate dai fatti.

Muovendoci su un livello d’analisi superiore, anche la composizione della corte del Tribunale non è esente da tare. Su 23 giudici (20 permanenti e tre ad litem), nove sono di Paesi appartenenti alla NATO. Circostanza che Šešelj non ha ovviamente mancato di rilevare in una delle sue note, caustiche deposizioni.

Il nodo concettuale dell’affaire Šešelj è la motivazione della sua (momentanea) scarcerazione. Mettere in difficoltà il governo del Primo Ministro Aleksandar Vučić e la sua politica bipartisan fra UE e Federazione Russa? Alternare la classica carota al bastone utilizzato nei rapporti fra Occidente e Serbia?

L’unica cosa certa è che, nonostante i nobili fini su cui è stato edificato, il Tribunale non è uno strumento di riconciliazione interetnica. La cattura, estradizione, condanna, proscioglimento di personaggi-simbolo del conflitto è rientrata sovente in un walzer diplomatico fra UE e Paesi Balcanici per testarne le “buone intenzioni” nel percorso di avvicinamento all’Europa.  Intanto, mentre i giudici de L’Aja giocano la loro partita diplomatica, ieri in Piazza della Repubblica a Belgrado si è svolta una manifestazione organizzata dal SRS: Pozdravimo pobednika (salutiamo il vincitore).

©Futuro Europa®

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